quinta-feira, 28 de março de 2013

Obbediente fino alla morte di croce

Il Dio che ha risuscitato Gesù dai morti è lo stesso che lo ha «consegnato» alla morte di croce. Già nell'abbandono della croce, quando Gesù invoca «perché?», Paolo vede la risposta a questo grido: «Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?» (Rm 8,32). Il Padre, come Paolo pone in particolare risalto, ha dunque abbandonato e consegnato alla morte il «proprio Figlio». Ancora più energicamente Paolo sostiene che «Dio lo fece peccato in nostro favore» (2 Cor 5, 21), e: «Egli divenne maledizione per noi» (Gal 3, 13). Il Padre abbandona il Figlio «per noi», per diventare cioè il Dio e Padre degli abbandonati. Il Padre «dà» il Figlio per diventare per mezzo di lui il Padre di coloro che sono stati «conse­gnati» (Rm 1, 18 ss ). Il Figlio viene consegnato a que­sta morte per diventare il fratello e il salvatore dei condannati e maledetti.

Il Figlio patisce la morte in questo abbandono. Il Padre patisce la morte del Figlio. Alla morte del Figlio risponde quindi il dolore del Padre. E se in questo viaggio all'inferno il Figlio perde il Padre, in tale giudi­zio anche il Padre perde il Figlio. È messa in gioco la vita più intima della Trinità. Qui l'amore del Padre che si comunica diventa dolore infinito per il sacrificio del Figlio. Qui l'amore del Figlio che risponde al Padre diventa sofferenza infinita per l'essere respinto e ripu­diato dal Padre. Ciò che accade sul Golgota raggiunge la divinità fin nel suo più profondo e connota quindi la vita trinitaria nella Trinità.

Secondo Gal 2, 26, però, il Figlio non è stato conse­gnato soltanto dal Padre; anche lui «ha dato se stesso per me». Nell'avvenimento di questa «dedizione» egli non è soltanto oggetto ma anche soggetto. La sua pas­sione e morte furono una passio activa, una via che egli segue in piena consapevolezza, una morte che egli ac­cetta. Secondo l'inno cristologico che Paolo riprende in Fil 2, l'autodonazione del Figlio consiste nel suo spogliarsi dell'immagine divina, nel suo assumere la fi­gura di servo, nel suo umiliarsi e rendersi «obbedien­te» fino alla morte di croce. Per la lettera agli Ebrei (5,8) egli «imparò l'obbedienza dalle cose che patì». Paradossalmente soffrì per la preghiera non esaudita, per l'abbandono del Padre. Così egli ha «imparato» l'obbedienza e il sacrificio. E ciò in piena sintonia con l'esposizione sinottica della storia di passione.

Dal punto di vista teologico ciò significa una profonda conformità di voleri tra il Figlio consegnato e il Pa­dre che consegna. Questo è pure il contenuto del rac­conto del Getsemani. Ma la profonda comunione di volontà ha la sua origine nel momento della più ampia separazione del Figlio dal Padre e del Padre dal Figlio, nella morte di maledizione sulla croce, nella «notte oscura» di questa morte. Sulla croce Padre e Figlio sono talmente separati l'uno dall'altro che si interrompono anche le relazioni che li uniscono. Gesù morì «sen­za Dio». Sulla croce, però, Padre e Figlio sono talmen­te uniti da esprimere un unico movimento di dedizio­ne: «Chi vede il Figlio, vede il Padre» (Gv 14, 9). (...)

Paolo ha interpretato l'avvenimento dell'abbandono da parte di Dio sulla croce come sacrificio del Figlio e il sacrificio del Figlio come amore di Dio. Quello che è l'amore di Dio, «dal quale nulla potrà mai separarci» (Rm 8,39), si è realizzato sulla croce e sulla croce viene sperimentato. Quel Dio che invia il proprio Figlio negli abissi e negli inferni dell'abbandono di Dio, della maledizione di Dio e del giudizio finale, nel suo Figlio si è reso ovunque e continuamente presente ai suoi. Dando il Figlio egli dona «ogni cosa», e «nulla» potrà mai più separarci.

J. Moltmann, Trinità e Regno di Dio, pp. 92-93

Nenhum comentário:

Postar um comentário