segunda-feira, 23 de dezembro de 2013

23 Dicembre La nascita del nuovo Elia

San Giovanni Battista, Centro Aletti, Serbia.
Dio fa sorgere Giovanni Battista, come il nuovo ed ultimo Elia, colui nel quale si compie e si esaurisce la lunga discendenza del profetismo. Tutto il profetismo, infatti, non era che preparazione alla venuta di Dio. Ora Dio visiterà il suo popolo «come un sole che sorge dagli abissi» (Lc 1, 78).

E proprio quello che Zaccaria, non più incredulo come alla prima visita dell’angelo, ma illuminato dallo Spirito Santo (Lc 1, 67) e ripieno dello spirito di profezia riconoscerà in questo figlio, uscito dalla sua carne, del quale contempla con stupore la missione nello spirito: «E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo» (Lc 1, 76). In virtù dello sguardo profetico che penetra, oltre le apparenze sensibili, nel contenuto divino della storia sacra, Zaccaria vede nel bambino quel profeta per eccellenza — non soltanto profeta ma «più di un profeta» (Mt 11, 9) — che «camminerà davanti al volto di Dio» cioè che precederà il manifestarsi di Dio per «preparare le vie» di questa manifestazione «mediante la remissione dei peccati». E questa manifestazione non sarà il giudizio terribile portato su di un’umanità schiava della morte e del peccato, ma l’espressione della «tenera misericordia» che si alzerà come un’aurora dalla profondità degli abissi, come una luce insperata nel cuore delle ineluttabili tenebre. (...) La vocazione di Giovanni ci appare così esemplare di ogni vocazione, in quanto ogni vocazione è una missione. Ci appare inoltre esemplare di ogni vocazione in quanto ogni vocazione è elezione. Ciò spiega innanzitutto il carattere assolutamente gratuito della vocazione. Dio sceglie come e quando vuole, senza essere condizionato da nulla, in piena e sovrana libertà. Libertà, tuttavia, che non è arbitrio; se la libertà divina non è condizionata da nulla di esterno, essa è però l’espressione dei misteriosi consigli della sapienza e dell’amore. Questo appare eminentemente in Giovanni. Egli è scelto da Dio per una missione che Dio stesso gli destina, non in virtù di qualche merito precedente ma fin da prima che nascesse. «Egli sarà ripieno di Spirito santo fin dal seno di sua madre» dice l’angelo a Zaccaria (Lc 1, 15). La Chiesa non esiterà ad applicargli, nell’introito della sua Messa, le parole con le quali il profeta Isaia designa l’eletto per eccellenza, il servo di Jhwh: «Jhwh mi ha chiamato fin dal seno materno, fin dalle viscere di mia madre ha pronunciato il mio nome» (Is 49, 1). Anche qui Giovanni Battista appare nella successione di tutti coloro che Dio aveva eletto nel corso della storia sacra per farne i propri strumenti. Poiché l’elezione è sempre in funzione di una missione. (...)

L’elezione appare così uno di quegli aspetti dei mores divini che si manifestano attraverso la storia sacra e che sono l’oggetto della contemplazione profetica. Come Maria ammirerà nell’incarnazione del Verbo la manifestazione della suprema potenza di Dio, così già Zaccaria ammira nell’elezione di Giovanni una meraviglia compiuta da Dio solo. Il Benedictus è quasi una profezia del Magnificat. Perciò tutto questo esordio del vangelo si svolge come una liturgia in cui i misteri si susseguono ai misteri, riempiendo di stupore gli angeli e gli uomini.

(J. Daniélou, Giovanni Battista, testimone dell’agnello, 14-17.)











sexta-feira, 20 de dezembro de 2013

21 Dicembre La visita di Maria a Elisabetta

Visitation, Arcabas (Jean Marie Pirot)
Compiendo il viaggio dalla Galilea alla Giudea, da Nazaret ad Ain-Karim, Maria non si piega a un evento della storia di questo mondo come avverrà per la sua venuta a Betlemme la notte della natività quando farà obbedienza a un editto dell’imperatore, e neppure obbedisce a un comando divino, come avverrà per la fuga in Egitto e il ritorno da quella terra in cui ogni volta un angelo del Signore informa Giuseppe in sogno sia del pericolo che minaccia il bambino, sia della morte di coloro che insidiavano la sua vita; non si conforma neppure a una prescrizione della Legge di cui adempirebbe minuziosamente le disposizioni, come ha abitudine di fare e come avverrà per la sua purificazione e la presentazione del bambino al Tempio quaranta giorni dopo la sua nascita. Tantomeno si reca da Elisabetta per verificare le parole dell’angelo, poiché la cugina la saluta chiamandola «Beata colei che ha creduto», e loda dunque la fede di colei che già ha creduto.

Maria non si dirige verso la montagna per mancanza di fede nella profezia o per un qualche dubbio su ciò che è accaduto in precedenza, ma perché spinta dalla gioia. Questo recarsi in visita ad Elisabetta risponde semplicemente al bisogno di Maria di essere là dove è necessario un servizio; questo viaggio rivela il bisogno di Maria di poter cantare la misericordia del Signore che viene a visitarla, andando a visitare colei che a sua volta ha ricevuto la visita del Signore.

Il tema della visita si ritrova in molte forme attorno al gesto di Maria: nel giorno dell’Annunciazione essa è stata visitata dall’angelo venuto a metterla a parte della sua elezione e a sollecitare il suo fiat. Ed Elisabetta da parte sua, come le ha rivelato allora l’angelo, è stata anch’essa visitata perché essa è al sesto mese, lei che era detta la sterile, e Dio ha posto fine alla sua vergogna. In un legame profondo con queste due visite si compie quest’altra visita di Maria verso la montagna, in una città di Giuda.

Il tema della visita ritorna sovente nell’evangelo dell’infanzia secondo Luca: visita dell’angelo Gabriele a Zaccaria e a Maria, visita di Maria ad Elisabetta, visita dei pastori alla mangiatoia, visita di Maria e di Giuseppe al Tempio, più tardi visita di Gesù, a dodici anni, in questo stesso Tempio. Tutte queste visite presenti nell’evangelo dell’infanzia, e di cui la Visitazione non è che un esempio, non sono che un’espressione multiforme della visita di Dio.

La visita di Dio in tutta la Scrittura indica il suo intervento, si tratti di giudizio odi salvezza. Dio visita quando giudica, e Dio visita quando salva. E Maria nel Magnificat canta la visita di Dio agli uomini, di cui essa è strumento, canta il giudizio e la salvezza: i potenti rimandati a mani vuote e i poveri esaltati, i sazi affamati e gli affamati colmati di beni, i superbi umiliati e gli umili glorificati. Questo canta Maria durante la sua visita a Elisabetta.

La visita che essa compie a sua cugina, d’altronde, è a immagine di quella che il Verbo si prepara a fare agli uomini incarnandosi nel suo seno, perché vi è una somiglianza profonda tra ciò che avviene nel seno della vergine di Nazaret e ciò che avviene sulla via che separa Nazaret da Ain-Karim. Il Verbo di Dio, che viene a visitare gli uomini facendosi uomo, visita già i suoi in questo gesto di Maria, preoccupata di annunziare al mondo l’incarnazione. Questa visita difatti si compie a immagine dell’incarnazione; è la più grande che si muove, che viene a servire portando in se stessa colui che sta prendendo nel suo seno la forma di servo e che viene «non per essere servito, ma per servire e per dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10, 45).

J.Goldstain, Harmoniques évangéliques, 18-20.



quinta-feira, 19 de dezembro de 2013

20 Dicembre - L’annuncio a Maria

Annunciazione, Arcabas.
La fede cristiana situa sempre la sua arché, il suo principio, in una apocalisse: apocalisse del Risorto in Paolo per l’espressione originaria dell’annuncio del mistero cristiano, apocalisse del battesimo al Giordano in Marco e nella prima forma letteraria assunta dai vangeli, apocalisse dell’Annunciazione in Luca. Ma l’apocalisse lucana si distingue per la sua discrezione. Tranne l’angelo, tutti gli elementi apocalittici sono scomparsi. Non ci sono più cieli aperti, nè fulmini, nè terremoti. Tutto si svolge in un villaggio di Galilea chiamato Nazaret, modesto e sconosciuto, e nell’integrità del cuore di Maria.

L’apocalisse è divenuta rivelazione. Il suo quadro non sono più i cieli squarciati e la gloria del Signore che illumina il firmamento, ma un cuore reso dalla fede perfettamente ricettivo alla Parola. «Maria conservava fedelmente tutte queste cose e le meditava nel suo cuore» (Lc 2,19.51). Questo atteggiamento è lo stesso che mostrano tutti i beneficiari di un’apocalisse ma Luca, fra tutti gli elementi apocalittici, ha conservato solo il più interiore. L’apocalisse si svolge non a livello dei segni esterni ma a quello della fede attenta e sensibile. In questo stesso senso, in un ambiente probabilmente molto vicino agli ambienti lucani, l’autore della lettera agli Efesini così pregava il Padre: «Vi conceda uno spirito di sapienza e di rivelazione (apocalisse) per una più profonda conoscenza di lui. Possa egli davvero illuminare gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità tra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi credenti secondo il vigore della sua forza, quella che ha manifestato in Cristo, risuscitandolo dai morti» (Ef 1,17-20).

Sembra quasi di ascoltare un commento al racconto dell’Annunciazione. Questo testo esprime molto bene il senso dell’Annunciazione, che è manifestazione della potenza di Dio in Cristo. Ed è proprio questo che Maria riconosce nella fede, grazie all’illuminazione degli occhi del cuore, al pari dei credenti di tutte le generazioni future. Così, al prologo della sua opera, Luca annuncia che l’apocalisse fondamentale è l’irruzione della Parola nel silenzio e nell’umiltà, nella bassezza della vita di una povera vergine. Sotto questo punto di vista, si possono accostare il prologo di Giovanni e quello di Luca: mentre Giovanni riprenderà il tema della Parolà per seguirlo risalendo fino a Dio, Luca si interesserà piuttosto alla discesa di questa Parola verso i poveri e i semplici e nel mondo intero. (...)

Questa Parola è la Parola di Dio che trasforma e crea. In Luca, come in tutta la Bibbia, la Parola rivoluziona l’esistenza degli uomini. Di una vergine essa fa una madre, di una giovane galilea la serva del Signore nel progetto divino della salvezza. La Parola rovescia i potenti ed innalza gli umili, rinvia i ricchi a mani vuote e sazia gli affamati. Ricevendo la Parola ci si apre infatti non alla sicurezza tranquilla di gente senza storia, ma ail’avvento apocalittico e all’avventura drammatica di un mondo nuovo. Per questo la pericope dell’Annunciazione non ha una conclusione. Essa si apre su un susseguirsi di eventi: «Mi avvenga secondo la tua Parola», secondo quella Parola che invia Gesù a Gerusalemme, al monte Calvario e a quello dell’Ascensione, secondo quella Parola che mette Pietro e Paolo sulle strade del mondo, secondo quella Parola la cui crescita e il cui impatto prolungano la discesa di Dio nella storia degli uomini.

L.Légrand, L’annonce à Marie, 347-348. 350.



quarta-feira, 18 de dezembro de 2013

19 Dicembre - L’annuncio a Zaccaria

Annuncio a Zaccaria, tempera su carta, Monastero di San Lorenzo, Amandola Marche, Italia 2007.
Zaccaria è sacerdote, Elisabetta appartiene alla discendenza di Aronne.

«Erano giusti davanti a Dio, osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore» (Lc 1, 6), eppure sembrano oggetto di un castigo divino. «Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni» (Lc 1,7).

Si ha l’impressione che la storia di Abramo ricominci da capo. Come avvenne per Abramo e Sara, Dio stesso interverrà con la sua Parola e un angelo sarà il suo messaggero. (...)

L’apparizione di Gabriele nel santuario durante l’offerta della sera manifesta l’ormai prossimo compimento della profezia da lui annunciata nel libro di Daniele riguardo alla venuta del Messia e all’unzione di un Santo dei Santi (cf. Dn 9,20-27). E mentre annuncia a Zaccaria l’esaudimento della sua preghiera, l’angelo Gabriele, ritto alla destra dell’altare, descrive la missione del figlio che Elisabetta gli darà. Dice innanzitutto il suo nome, che è già rivelativo: «Giovanni», che significa «JHWH fa grazia».

Dio risponde alla preghiera dell’uomo con la sovrabbondanza della sua grazia. Poi Gabriele sottolinea la gioia portata dalla nascita del bambino; e già si profila la gioia messianica che colmerà l’attesa di Israele.

La consacrazione di Giovanni per una missione particolare è affermata in termini che ricordano la storia di Sansone (cf. Gdc 13,4. 13-14) e l’istituzione del nazireato (cf. Nm 6,3). Questa missione consiste nel camminare dinanzi all’inviato di JHWH con lo spirito e la forza di Elia, cioè in qualità di profeta. La pienezza dello Spirito Santo che discende su di lui fin dal seno materno lo pone nel solco di Geremia (cf. Ger 1,5) e il suo ruolo di riconciliatore messianico adempie la speranza intravista da Malachia al termine dell’Antico Testamento (cf. Ml 3, 24): deve preparare il popolo all’instaurazione del regno.

Nel momento m cui per Israele si annunciano questi giorni decisivi, Zaccaria si vede ridotto al silenzio. Ha posto la stessa domanda di Abramo: «Come posso conoscere questo?» (cf. Gen 15, 8), ma senza la fede di Abramo.

Oppone la propria situazione, così come la vive, alla Parola creatrice di Dio. Come il primo Adamo esige un sapere più grande della rivelazione che gli viene data, ma la Parola di Dio si dà testimonianza da se stessa: «Chi ha dato una bocca all’uomo o chi lo rende muto o sordo, veggente o cieco? Non sono forse io, il Signore? — risponde Dio a Mosè dubbioso ed esitante. — Non vi è forse Aronne, tuo fratello? Gli parlerai e metterai sulla sua bocca le parole da dire» (Es 4,11. 14-15).

Una medesima parola di vita attraversa la carne dei due sposi rendendo l’una feconda e l’altro muto. Zaccaria, ridotto al silenzio, impotente a pronunciare la benedizione finale deve scomparire davanti al solo che è in grado di pronunciarla e di portare a compimento la liturgia iniziata.

Poi Zaccaria, una volta guarito, benedirà Dio, ma la benedizione sul popolo sarà data alla fine dell’evangelo (cf. Lc 24,50-51) da Gesù, che Pietro chiamerà il servo inviato a portare la benedizione (cf. At 3,26). (...)

Con essa si compirà, oltre ogni speranza, la promessa fatta da Dio ad Abramo: «In te saranno benedette tutte le tribù della terra» (Gen 12,3).

Ph. Bossuyt - J. Radermakers, Jésus Parole de Li Grcice selon saint Luc, 95-98.



terça-feira, 17 de dezembro de 2013

18 Dicembre - Il giusto Giuseppe

San Giuseppe, tempera acrilica su legno, Monastero di San Lorenzo, Amandola Marche, Italia.
In che cosa consiste la giustizia di Giuseppe? Nulla ci viene detto della sublime giustizia a causa della quale Giuseppe ha creduto nell’intervento divino; a differenza della Vergine, infatti, egli non svolge alcuna parte nella concezione verginale. La sua giustizia si compie quando permette a Dio di sormontare le difficoltà che crea una nascita senza padre, infamante per gli uomini. In compenso Giuseppe ha un ruolo capitale nella nascita legale. Come Maria ha obbedito in qualità di serva del Signore per concepire il Figlio dell’Altissimo, così egli deve obbedire per divenirne il padre. L’indugio che lo abbandona alle sue sole risorse non è riferito per interessarci alle sue angosce o alla sua virtù morale, ma per rivelare come si realizza il piano divino. Dio solo conduce lo svolgersi degli avvenimenti, ma non per questo disdegna il concorso degli uomini. È in nome della stirpe davidica, in nome d’Israele, come rappresentante del popolo eletto che, per ordine divino, il giusto Giuseppe accetta il mistero della nuova Alleanza. Se Luca, evangelista di Maria, racconta la concezione e la nascita del Figlio della Vergine, Matteo riferisce la nascita del Messia, del Figlio di David.

Giuseppe si mostra giusto non in quanto osserva la Legge che autorizza il divorzio in caso di adulterio, né perché si dimostra buono,
nè perché egli debba render giustizia ad una innocente, ma per il fatto che egli non vuole farsi passare per padre del bambino, Figlio di Dio. Se egli teme di prendere con sé la sua sposa, Maria, non è per una ragione profana; è perché egli scopre una «economia» superiore a quella del matrimonio che intendeva contrarre.

Il Signore ha modificato il suo disegno su di lui; ch’egli accetti di assicurare l’avvenire della sua eletta. Giuseppe si ritira, avendo cura, nella delicatezza della sua giustizia verso Dio, di non «divulgare» il mistero divino di Maria. (...)

Giuseppe non è soltanto un modello di virtù, ma l’uomo che ha svolto una funzione indispensabile nell’economia della salvezza. Il giusto Giuseppe può venir paragonato a Giovanni il precursore.

Giovanni annuncia e indica il Messia; Giuseppe accoglie il salvatore d’Israele. Giovanni è la voce che si fa eco della tradizione profetica; Giuseppe è il figlio di David che adotta il Figlio di Dio. A motivo della sua proclamazione ufficiale, Giovanni è Elia, il grande profeta; a motivo dell’umile accoglienza ch’egli fa all’Em-manuele nella sua stirpe, Giuseppe è il giusto per eccellenza. Come tutti i giusti, egli aspetta il Messia, ma solo lui riceve l’ordine di gettare un ponte tra i due Testamenti; molto più di Simeone che prende Gesù tra le sue braccia, egli accoglie Gesù nella propria stirpe. Giuseppe reagisce come i giusti della Bibbia davanti a Dio che interviene nella loro storia: come Mosè che si toglie i sandali, come Isaia terrificato dall’apparizione del Dio tre volte santo, come Elisabetta che si chiede perché la madre del suo Signore venga da lei, come il centurione del vangelo, come Pietro che dice: «Allontanati da me, Signore, perché sono un peccatore» (Lc 5,8).

X.-L. Dufour, Studi sul vangelo,103-108.


17 dicembre - Nella storia degli uomini


All’inizio del Nuovo Testamento si trova l’uomo Gesù, che viene dalla storia degli uomini: con la sua genealogia Matteo introduce cautamente la lunga e confusa storia dell’Antico Testamento nel Nuovo, che è incominciato con Gesù Cristo. In una triplice serie di quattordici generazioni, egli riprende, in certo qual modo, tutta questa storia e la conduce a colui per il quale soltanto, in definitiva, essa è esistita. Egli mostra che questa storia, su tutte le sue strade, in maniera misteriosa mette in luce Cristo; fa vedere che, anche in passato, si trattava sempre e solo dell’unico Dio, che visitava il suo popolo e che ora in Gesù Cristo è divenuto il fratello degli uomini. (...)

La storia, in cui fece il suo ingresso Gesù, è una storia normalissima, con tutti gli scandali e le viltà che si incontrano tra gli uomini, con tutti i progressi ed i buoni propositi, ma anche con tutte le colpe e le bassezze: una storia estremamente umana. Le quattro donne, che sono nominate nella genealogia, sono quattro testimonianze della colpa umana: tra di esse è la prostituta Rahab, che con uno stratagemma fece avere in mano Gerico agli immigrati israeliti; tra di esse vi è la moglie di Uria, della quale David s’impadronì con adulterio ed omicidio. Le cose non sono diverse se guardiamo agli uomini: né Abramo, nè Isacco, né Giacobbe sono figure ideali; non lo è David e neppure Salomone; e, infine, incontriamo anche dei tiranni, come Achaz e Manasse, il cui trono è bagnato dal sangue delle persone innocenti uccise. È una storia tetra quella che conduce a Gesù, non certo senza speranze e senza momenti positivi, ma in complesso una storia di miseria, di colpa, di fallimento. È questo l’ambiente in cui potrebbe nascere il Figlio di Dio? — ci verrebbe voglia di domandarci. La Scrittura risponde: sì. Proprio questo ci è stato dato come segno. L’incarnazione di Dio non è un risultato dell’ascesa dell’uomo, ma un risultato della discesa di Dio. (...)

La genealogia di Matteo incomincia con Abramo ed è, quindi, una testimonianza della fedeltà di Dio, il quale ha adempiuto la promessa fatta in precedenza ad Abramo: essere il portatore di una benedizione per tutta l’umanità. Tutta la genealogia, con tutti i suoi disordini, con i suoi alti e bassi, è una lampante testimonianza della fedeltà di Dio, che mantiene la sua Parola malgrado tutti i fallimenti, nonostante tutta l’indegnità degli uomini. L’evangelista Luca, che ci offre parimenti una genealogia di Gesù (Lc 3,23-28), ha scelto un diverso punto di vista. Egli fa risalire la genealogia del Signore non soltanto ad Abramo, ma fino ad Adamo, fino alle mani di Dio che plasmarono l’uomo. Con ciò egli vuole indicare che la comunità di Gesù non solamente è un nuovo Israele, un nuovo popolo di Dio, che Dio raduna per sé in questo mondo, ma vuol affermare che la missione di Gesù è diretta a tutta l’umanità. Non è salvezza per un gruppo, per una cerchia, essa è destinata all’umanità tutta, al mondo. Solamente in Gesù Cristo la missione dell’uomo giunge alla sua vera meta, in lui solo è completamente realizzato il progetto creativo «uomo»; in lui ci è apparsa l’umanità del nostro Dio. Nel volto di Gesù Cristo appare chi è Dio e si manifesta chi è l’uomo.

(J.Ratzinger, Dogma e predicazione, 263-266.)



sábado, 6 de abril de 2013

La risurrezione della Parola


La passione del Logos fino alla morte in questo mon­do, pur comportando un'agonia e una morte della lo­gica, sembrava ancora suscettibile d'essere espressa in qualche modo con parole di quaggiù. Ma con quali pa­role descriveremo la logica della risurrezione, destinata per sua natura a forzare le tombe delle nostre idee, a sorpassare le nostre rappresentazioni temporali e spa­ziali, ad attraversare sovranamente le porte chiuse del concetto? Essa è a tal punto realtà spirituale che tutte le leggi della materia sono sospese; ed è insieme a tal punto realtà sensibile, che il Figlio di Dio non solo ap­pare, non solo parla, ma si fa sentire e toccare, e man­gia e beve insieme con i suoi.
La Parola è diventata del tutto divina ma è rimasta del tutto umana; e questa umanità, che sempre è stata espressione della sua divinità e ora ormai è stata rias­sunta nella sfera celeste, è così naturalmente credibile sulla terra, che nessuna distanza la separa da quag­giù, e che tutto il passato del cammino terreno è entrato nella verità eterna, come raccolto in quelle stigmate che egli mostra. Le stigmate sono più che un segno esterno, una specie di nobile emblema per il dolore che c'è stato; al di là dell'abisso della morte e risurre­zione che raggiunge la profondità dell'inferno, esse so-no l'identità della coscienza. E sempre lo stesso, che ha conosciuto questa vita, questa croce e questa morte. «Guarda le mie mani e i miei piedi: sono proprio io!» (Lc 24,39). (...)
Il Logos della risurrezione, che sgorga dal miracolo della dimostrazione di potenza del Padre, integra in sé tutto ciò che egli era sulla terra, per rapirlo nella sfe­ra di questo miracolo, per trasfigurarlo, per sopraelevarlo; il Logos quindi conserva la continuità con il mondo della storia solo in quanto egli rinnova e co­struisce la storia a partire da questo nuovo inizio. Que­sto Logos, compreso nella sua novità, non può assolu­tamente essere compreso a partire dalle categorie del vecchio universo.
«Colui che sente in modo terreno non accetta le cose che sono dello Spirito di Dio, egli non può comprenderle, poiché esse devono essere giudicate in mo­do spirituale; ma lo spirituale giudica tutto, e non è giudicato da nessuno» (1 Cor 2, 14-15). Qui si inseri­sce la dottrina di Paolo: il credente è con-sepolto, con-risorge, addirittura con-ascende al cielo. (...)
E un costruirsi su Cristo (cf. Col 2, 7), un «essere associati alla sua pienezza» (Col 2, 9) mediante il «morire insieme a lui nel battesimo e risorgere insieme a lui per la fede nella potenza di Dio che lo ha risusci­tato dai morti» (Col 2, 12); poiché proprio «i nostri misfatti», «il certificato di debito che suona contro di noi» furono in lui «inchiodati sulla croce» (Col 2, 14). E così «attraverso la morte dell'Uno sono tutti morti» (2 Cor 5, 14) o anche, ciò che conduce alla stes­sa conclusione, «mediante l'opera di giustizia di uno solo viene su tutti la redenzione e la vita» (Rm 5, 18). «Insieme a Cristo essere morti agli elementi del mondo» (Col 2, 20) vuoi dire già perciò «essere ri­sorti con Cristo e pensare alle cose dell'alto, dove Cri­sto siede alla destra di Dio» (Col 3, 1-2). E esistenza nel passaggio che Cristo ha compiuto e che solo mediante questo compimento ha reso possibile anche per noi: «Spogliarsi dell'uomo vecchio con le sue opere e rive­stire l'uomo nuovo» (Col3, 9), che quindi non è affatto uno gnostico o contemplativo estraniato al mondo, ma sorge dalla concreta, attiva riproduzione in sé della condizione e dell'agire di Cristo: «Rivestitevi quindi come eletti di Dio, santi e amati, di viscere di misericordia, di bontà, di umiltà, di mitezza, di pazienza; sopportatevi a vicenda e perdonate..., come il Signore vi ha perdonato.
Soprattutto rivestitivi d'amore; esso è il legame della perfezione» (Col 3, 12-14). L'etica scaturisce dalla logi­ca di morte e risurrezione, poiché quella logica permet­te ai membri di Cristo di riconoscerla come credibile e di praticarla.
H.U. von Balthasar, Il tutto nel frammento, 226-229

terça-feira, 2 de abril de 2013

Il tuo nome è Interno, alleluia!

Nolite mi tangere, San Pedro el viejo, Huesca Spagna.

Quanto lungo, per quanto breve cronologicamente e spazialmente, è il cammino che Maria deve percorrere per passare dall’«esterno» e dall’essere solo «vicino» (Gv 20,11) al sepolcro in cui cerca l’Amore crocifisso, a lasciarsi introdurre all’interno del mistero di Cristo ormai risorto. Il cammino che Maria vive accanto al sepolcro è il processo di conversione cui l’apostolo Pietro invita i suoi uditori al mattino di Pentecoste: «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare» (At 2,38), ossia accetti di farsi innestare nella stessa vita del Risorto. Ci verrebbe da consigliare a Pietro di non insistere troppo sul passato, visto che tutto alla fine si è risolto per il meglio, anzi sembra che Gesù di Nazaret ci abbia persino un po’ guadagnato, visto che ormai si può proclamare e credere che sia stato «costituito Signore e Cristo» (2,36). Ma l’opera di Dio, per quanto magnifica e capace di rigenerare e riposizionare la storia, non è sufficiente senza il consenso della nostra volontà, che deve necessariamente passare attraverso la presa in carico delle proprie responsabilità.
Per questo Pietro, dopo aver esaltato l’opera di Dio, ricorda – prima di tutto a se stesso – quella dura verità che può schiacciare o può far volare: «… che voi avete crocifisso» (2,36). Per la stessa ragione, il Signore Gesù non si rivela immediatamente a Maria di Magdala e, soprattutto, non si rivela per quello che questa donna vede, ma per quel cammino di consapevolezza del dolore e del vuoto lasciato da Gesù nella sua vita che le permette di incontrarlo ricominciando ad ascoltare dalle sue labbra il suo stesso nome: «Maria!« (Gv 20,16). La domanda – o meglio le domande – che vengono poste a Maria sono le stesse che sentiamo risuonare nel giardino del nostro cuore, ove siamo chiamati a passare dalla tristezza dell’attaccamento al nostro dolore a una graduale apertura, nell’accoglienza di una gioia inedita e imprevista. Tutto ciò ci chiede di andare oltre noi stessi, pur nella verità di noi stessi che ci porta oltre la stessa nostra esperienza di risurrezione in un dinamismo centrifugo ed estroverso che, dall’interno di un cuore pacificato e guarito, si fa dinamico annuncio e non dolce intimismo. Nel pronunciare il nome da parte del Risorto e nella risposta di Maria, che lo chiama «Maestro», vi è una pedagogia che permette di passare dall’impersonale al personalissimo reciproco riconoscimento. Esso esige una giusta dose di rispetto e distanza, e un’accoglienza serena di quell’ordine che permette alla vita di dare il meglio: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre» (20,17). Così pure, al mattino, quanti ascoltano Pietro si sentono «trafiggere il cuore» e solo a partire dalla coscienza delle proprie responsabilità si apre un futuro: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?» (At 2,37). Se è vero che la risurrezione non è una rivincita di Gesù su quanti lo hanno rifiutato fino a crocifiggerlo, è ancora più vero che la discreta vittoria pasquale sulla morte, che nasce dal rifiuto dell’amore, non è una storia a lieto fine in cui tutti sono felici e contenti, ma una storia che esige il coraggio di assumere il passato e volgersi verso l’avvenire attraverso scelte concrete ed esigenti nel presente: «Convertitevi…» (2,38).
Semeraro, M., La messa quotidiana, aprile 2011, 187-189,

segunda-feira, 1 de abril de 2013

Nel giardino della risurrezione

Miniatura, sec. XIII
Maria di Magdala non si reca al sepolcro per ungere il corpo di Cristo, ma per piangere. Nel quarto evangelo l'unzione è già stata fatta da Nicodemo e Giuseppe d'Arimatea; Giovanni l'ha già descritta. Maria piange. Quattro volte Giovanni menziona queste lacrime. E ancora buio, è l'ora della tristezza e delle tenebre ma già si percepisce che la luce sta per risplendere.

Maria di Magdala vede la pietra rimossa dal sepolcro, corre allora da Pietro e dall'altro discepolo, quel-lo che Gesù amava, per confidare loro tutto il suo smarrimento: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto» (Gv 20, 13). Non sa più dove sia Gesù. Pietro e Giovanni vanno al sepolcro, vedono le fasce a terra e il lenzuolo che gli era stato posto sul capo, piegato a parte, poi se ne ritornano a casa. Il discepolo che Gesù amava è il primo a credere.

Maria di Magdala ritorna al sepolcro. Piange e si china verso il sepolcro: il vuoto totale. Non trova colui che ha amato. Pur sapendolo morto, lo cerca ancora con passione. Due angeli la interrogano: «"Donna, perché piangi?". Rispose loro: "Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto". Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù che stava li in pie-di, [cioè risorto], ma non sapeva che era Gesù. Le disse Gesù: "Donna, perché piangi? Chi cerchi?". Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: "Signore, se l'hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo". Gesù le disse: "Maria!". Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: "Rabbuní!", che significa: "Maestro"» (Gv 20, 13-16).

Gesù rivolge a Maria di Magdala la domanda che aveva rivolto tempo addietro in Galilea, quando chiamava i primi discepoli. «Chi cercate?» domandava Ge-sù ai due discepoli di Giovanni Battista che diverranno discepoli del Galileo. E come allora i due discepoli attribuiscono a Gesù il titolo di «Rabbi». Maria di Magdala, che riconosce Gesù quando la chiama per nome, esclama: «Rabbuní, Maestro!».

Cercando il suo Maestro dopo la sua morte, riconoscendolo quando egli pronuncia il suo nome, si fa discepola alla sequela del Cristo risorto, come lo era stata quando era in vita. Ha seguito Gesù in Galilea, l'ha seguito fino alla croce, lo segue ora nella sua risurrezione. Essa si volge verso Gesù, annota Giovanni; ci vuoi suggerire con queste parole che Maria si converte al Cristo risorto. Maria di Magdala crede alla sua risurrezione, trova vivente colui che cercava morto.

Giovanni si è preso cura di precisare che il sepolcro è posto in un giardino, evocazione possibile del giardino del Cantico dei Cantici. Come la sposa del Cantico, Ma-ria sconsolata si è messa a cercare il suo Signore che le era stato tolto. Come la sposa lo ha trovato e non lo lascerà più. «Ho trovato l'amato del mio cuore» (Ct 3, 4).

Maria di Magdala, chiamata «donna» da Gesù, personifica l'umanità alla ricerca di un salvatore. Sposa, è anche la nuova Eva. Nel giardino dell'Eden la prima donna era fuggita, nel giardino della risurrezione la donna riconosce il suo Maestro e non lo lascia più.

Alla brezza della sera, Dio conversava con colei che il peccato aveva sedotto; all'alba della risurrezione vie-ne ad asciugare le lacrime di colei che aveva liberato dai sette demoni. L'Eva della caduta diventa l'Eva della fede.

J.-L. Vesco, Marie de Magdala. Évangiles et traditions, pp. 25-28.

domingo, 31 de março de 2013

Pasqua di risurrezione Cristo è risorto

Discesa agli Inferi, Acquerella, Collezione fatta per "la Domenica" 2000, Italia.
Che significa celebrare Pasqua nel nostro mondo ripieno di sofferenze, di odio, di ostilità, di guerre? Che cosa vuoi dire la nostra liturgia orientale quando ci fa cantare che Cristo «con la morte ha vinto la morte» e ci fa ascoltare «che non c'è più alcun morto nei sepolcri», mentre la morte esiste ancora ed è l'unica certezza assoluta in questo mondo, a dispetto di tutta l'agitazione umana? (...)

Non c'è una risposta definitiva a questa domanda, non esiste una spiegazione della fede pasquale formulabile in termini scientifici. Ciascuno può testimoniare soltanto la propria esperienza. Ma se vi riflettiamo, proprio al cuore di questa esperienza vissuta e personale, scopriamo ad un tratto il fondamento di tutto, che cancella tutti i nostri dubbi e interrogativi come il fuoco che fonde la cera e illumina ogni cosa di luce abbagliante. Qual è dunque questa esperienza? Non posso descriverla e definirla altrimenti che come l'esperienza del Cristo vivente. Ciò che rende possibile la festa stessa della Pasqua, ciò che riempie di gioia e di luce questa notte unica e fa risuonare con tanta forza il grido di trionfo: «Cristo è risorto ! E veramente risorto!», è proprio la mia fede nata dall'esperienza vivente di Cristo. Come e quando essa è sorta, non lo so, non lo ricordo più. So solo che quando apro i vangeli e leggo le parole di Gesù e il suo insegnamento, ripeto dentro di me, con tutto il cuore e con tutto il mio essere, le parole degli inviati dei farisei, venuti per arrestare Gesù e ritornati senza averlo potuto fare: «Mai un uomo ha parlato come parla quest'uomo!» (Gv 7, 46). La prima cosa che so è che l'insegnamento di Cristo è vivo e che nulla al mondo può essergli paragonato. Questo insegnamento mi parla di vita eterna, di vittoria sulla morte, di un amore che vince la morte. Ormai so che nella vita in cui tutto sembra difficile e quotidiano, l'unico bene che rimane e non cambia mai è proprio la coscienza che Cristo è sempre con me. «Non vi lascio orfani. Ritornerò da voi» (Gv 14, 18). Viene a noi e noi possiamo sperimentare la sua presenza. Nella preghiera, nel fremere dell'anima, nella gioia incomprensibile e tuttavia così intensa, nella presenza misteriosa e certa della sua persona, nella Chiesa che prega e amministra i sacramenti, ogni volta questa esperienza cresce e si amplifica: il Cristo è presente, le sue parole si sono compiute. «Se uno mi ama io lo amerò e mi manifesterò a lui; e noi verremo e prende-remo dimora presso di lui» (Gv 14, 21.23 ). Nella gioia e nella sofferenza, in mezzo alla folla e nella solitudine, ritroveremo la certezza della sua presenza, la forza del-la sua parola, la gioia della fede in lui. Ecco la sola risposta e la sola prova.

Perché cercare tra i morti colui che è vivente? Per-ché piangere l'incorruttibile nella corruzione? Il cristianesimo non è nient'altro che il sentimento rinnovato di questa fede e la sua incarnazione. Pasqua, infatti, non è il ricordo di un evento passato. E l'incontro reale nella gioia e nel gaudio con colui nel quale il nostro cuore ha scoperto la vita e la luce. La grande notte pasquale testimonia che Cristo è vivente e che noi siamo viventi in lui. E un richiamo a vedere nel mondo e nella vita l'alba del giorno misterioso del regno di luce. La Chiesa orientale canta: «In questo giorno la primavera espande il suo profumo e la creatura rinnovata si rallegra». Essa si rallegra nella fede, nell'amore e nella speranza. «E il giorno della risurrezione. La festa ci illumini, abbracciamoci gli uni gli altri come fratelli, nel no-me del Risorto perdoniamo coloro che ci odiano e cantiamo: "Cristo è risorto dai morti, con la morte ha di-strutto la morte e a coloro che giacevano nei sepolcri ha donato la vita". Cristo è risorto!».

A. Schmemann, Christ est ressuscité, pp. 26-28.

sábado, 30 de março de 2013

Gli inferi ormai appartengono a Cristo

Discesa agli Inferi - sec. XIs - Rotolo dell'Exultet.
Se il Padre deve essere considerato come il creatore della libertà umana, con tutte le sue prevedibili conse­guenze, allora a lui appartiene originariamente il giudi­zio e perciò anche l'inferno; e quando invia nel mondo il Figlio per salvarlo invece di giudicarlo e a tal fine «rimette a lui ogni giudizio» (Gv 5,22), allora, quale conseguenza estrema della libertà creata, deve anche introdurre il Figlio nell'«inferno». Ma il Figlio può es­sere realmente introdotto nell'inferno solo in quanto morto, il Sabato santo.

Questo ingresso negli inferi è necessario, perché i morti «devono ascoltare la voce del Figlio di Dio» e, ascoltando questa voce «vivere» (Gv 5,25). Il Figlio deve visitare tutto ciò che nel dominio della creazione è imperfetto, informe, caotico per farlo passare nel suo dominio poiché egli è il redentore. È quanto dichiara Ireneo: «Per questo discese nelle regioni inferiori della terra, per vedere con i suoi occhi ciò che nella creazio­ne era incompiuto» (Adv. Haer., 4, 22,1).

Questa visione del caos operata dall'Uomo-Dio è divenuta per noi la condizione della nostra visione della Divinità. La sua esplorazione delle profondità ultime ha trasformato quella che era una «prigione» in una «via». Così dichiara Gregorio Magno: «Cristo è disce­so nelle profondità ultime del mare, quando andò nel più profondo inferno, per ricondurre da là le anime dei suoi eletti. Prima della redenzione, le profondità del mare non erano una via, ma una prigione... Ma Dio trasformò quell'abisso in una via... È chiamato an­che "l'abisso più profondo", perché come gli abissi del mare non possono essere sondati da alcuno sguardo umano così il segreto dell'inferno non può essere colto da alcuna conoscenza umana» (Mor., 29).

Ma il Signore può attraversare il più profondo infer­no perché non è impedito da alcun legame di peccato ma è «libero tra i morti». Gregorio poi dagli abissi del Sabato santo si volge a contemplare le discese del Re­dentore nella perdizione del cuore peccatore: la stessa discesa si ripete ogni volta che il Signore scende nelle profondità dei «cuori disperati».

Al seguito di Gregorio, anche Isidoro di Siviglia parla della «via nelle profondità del mare», che apre agli eletti la via del cielo (1 Sent., 14, 15). Poiché il Figlio attraversa il caos in virtù della missione ricevuta dal Padre, in mezzo alle tenebre di ciò che è contrario a Dio, è oggettivamente «in paradiso», e ciò può essere espresso dall'immagine del trionfo. Così afferma Prodo di Costantinopoli: «Oggi Cristo è venuto nella pri­gione quale re, oggi ha spezzato le porte di bronzo e il chiavistello di ferro; lui che fu inghiottito come un morto ordinario, ha devastato l'inferno in Dio» (Serm., 6,1). Ha preso possesso degli inferi, come sot­tolinea Tommaso d'Aquino (Expos. symb., a 5). Gli in­feri ormai appartengono a Cristo. H.U. von Balthasar, Pâques, le mystère, 168-169.

quinta-feira, 28 de março de 2013

Obbediente fino alla morte di croce

Il Dio che ha risuscitato Gesù dai morti è lo stesso che lo ha «consegnato» alla morte di croce. Già nell'abbandono della croce, quando Gesù invoca «perché?», Paolo vede la risposta a questo grido: «Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?» (Rm 8,32). Il Padre, come Paolo pone in particolare risalto, ha dunque abbandonato e consegnato alla morte il «proprio Figlio». Ancora più energicamente Paolo sostiene che «Dio lo fece peccato in nostro favore» (2 Cor 5, 21), e: «Egli divenne maledizione per noi» (Gal 3, 13). Il Padre abbandona il Figlio «per noi», per diventare cioè il Dio e Padre degli abbandonati. Il Padre «dà» il Figlio per diventare per mezzo di lui il Padre di coloro che sono stati «conse­gnati» (Rm 1, 18 ss ). Il Figlio viene consegnato a que­sta morte per diventare il fratello e il salvatore dei condannati e maledetti.

Il Figlio patisce la morte in questo abbandono. Il Padre patisce la morte del Figlio. Alla morte del Figlio risponde quindi il dolore del Padre. E se in questo viaggio all'inferno il Figlio perde il Padre, in tale giudi­zio anche il Padre perde il Figlio. È messa in gioco la vita più intima della Trinità. Qui l'amore del Padre che si comunica diventa dolore infinito per il sacrificio del Figlio. Qui l'amore del Figlio che risponde al Padre diventa sofferenza infinita per l'essere respinto e ripu­diato dal Padre. Ciò che accade sul Golgota raggiunge la divinità fin nel suo più profondo e connota quindi la vita trinitaria nella Trinità.

Secondo Gal 2, 26, però, il Figlio non è stato conse­gnato soltanto dal Padre; anche lui «ha dato se stesso per me». Nell'avvenimento di questa «dedizione» egli non è soltanto oggetto ma anche soggetto. La sua pas­sione e morte furono una passio activa, una via che egli segue in piena consapevolezza, una morte che egli ac­cetta. Secondo l'inno cristologico che Paolo riprende in Fil 2, l'autodonazione del Figlio consiste nel suo spogliarsi dell'immagine divina, nel suo assumere la fi­gura di servo, nel suo umiliarsi e rendersi «obbedien­te» fino alla morte di croce. Per la lettera agli Ebrei (5,8) egli «imparò l'obbedienza dalle cose che patì». Paradossalmente soffrì per la preghiera non esaudita, per l'abbandono del Padre. Così egli ha «imparato» l'obbedienza e il sacrificio. E ciò in piena sintonia con l'esposizione sinottica della storia di passione.

Dal punto di vista teologico ciò significa una profonda conformità di voleri tra il Figlio consegnato e il Pa­dre che consegna. Questo è pure il contenuto del rac­conto del Getsemani. Ma la profonda comunione di volontà ha la sua origine nel momento della più ampia separazione del Figlio dal Padre e del Padre dal Figlio, nella morte di maledizione sulla croce, nella «notte oscura» di questa morte. Sulla croce Padre e Figlio sono talmente separati l'uno dall'altro che si interrompono anche le relazioni che li uniscono. Gesù morì «sen­za Dio». Sulla croce, però, Padre e Figlio sono talmen­te uniti da esprimere un unico movimento di dedizio­ne: «Chi vede il Figlio, vede il Padre» (Gv 14, 9). (...)

Paolo ha interpretato l'avvenimento dell'abbandono da parte di Dio sulla croce come sacrificio del Figlio e il sacrificio del Figlio come amore di Dio. Quello che è l'amore di Dio, «dal quale nulla potrà mai separarci» (Rm 8,39), si è realizzato sulla croce e sulla croce viene sperimentato. Quel Dio che invia il proprio Figlio negli abissi e negli inferni dell'abbandono di Dio, della maledizione di Dio e del giudizio finale, nel suo Figlio si è reso ovunque e continuamente presente ai suoi. Dando il Figlio egli dona «ogni cosa», e «nulla» potrà mai più separarci.

J. Moltmann, Trinità e Regno di Dio, pp. 92-93

Li amò sino alla fine

Ultima cena  e Lavanda piedi - 1418-1422 - Bibbia di Mkrtich Naghash 
«Gesù, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13, l). Li amò sino alla fine, fino alla profondità massima e fino al termine, fino alla fine di quell'amore infinito, fino all'essere stesso di Dio. Proprio nella sua semplicità questa espressione raggiunge le altezze massime, il cuore stesso del miste­ro di salvezza che si fonda sul mistero della santa Tri­nità. Gesù rivela l'amore perfetto e infinito del Padre celeste che crea e salva inviando il Figlio nel mondo, nella carne, nella condizione umana più umile. «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigeni­to, affinché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3, 16-17).

«Li amò sino alla fine»: nel linguaggio giovanneo questa parola fine (telos) annuncia anche la passione, l'amore infinito del Figlio che ha assunto in perfetta obbedienza la natura umana fino alla spoliazione tota­le, fino alla morte e alla morte di croce (cf. Fil 2, 8). «Non c'è amore più grande che dare la vita per i pro­pri amici» (Gv 15, 13).

«Li amò sino alla fine». Ma la morte non è l'ultima parola, le tenebre non possono soffocare la luce. «Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita per poi riprenderla di nuovo. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho rice­vuto dal Padre mio» (Gv 10, 17-18). Ho il potere di dare la vita e il potere di riprenderla di nuovo. Tale è la forza inaudita della risurrezione che ha origine sulla croce e nel sepolcro. Croce vittoriosa, sepolcro vivificante! «Li amò sino alla fine», cioè fa partecipare i suoi alla sua vita attraverso la sua morte. «Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6, 4).

«Li amò sino alla fine», fino alla vittoria sulla morte, sull'ultimo nemico, finché la vita nuova viva nei nostri corpi mortali. «Li amò sino alla fine» manifesta anche l'amore infinito dello Spirito santo che ci rivela il volto di gloria del Cristo risorto e che ci fa partecipare, attra­verso l'umiliazione del Figlio eterno, alla gloria della sua risurrezione; amore infinito dello Spirito santo il quale ci trascina al seguito di Gesù sommo sacerdo­te, nostro precursore (cf. Eb 6, 20), fino alla destra del Padre celeste, e che dimora con noi per sempre.

La venuta dello Spirito santo, di cui Gesù è il precursore, è veramente il termine e la pienezza dell'amore della santa Trinità, amore rivelato e offerto come comunione; in lui la vita stessa di Dio scorre nelle no­stre membra, ci unifica, ci rinnova, ci purifica. Lo Spi­rito santo è il grande Purificatore, viene a porre la sua dimora in noi, a purificarci da ogni impurità, da ogni peccato, da ogni male. Santificarci, chiamarci alla puri­ficazione è l'esigenza propria all'amore di Dio; senza questa purificazione il nostro amore stesso, i nostri ge­sti e i nostri doni sono opachi, appesantiti. L'amore è umile, ma esigente.

È bene ricordare il contesto trinitario dell'amore e dell'umiliazione dell'ultima cena e della lavanda dei piedi. Amore e umiliazione, amore perfetto e totale ab­bassamento sono due realtà inseparabilmente unite nei gesti umani più quotidiani come nei momenti più su­blimi della redenzione di Cristo. Amore e umiliazione che hanno le loro radici nella vita stessa di Dio, nella sua natura ineffabile. (...) L'amore di Cristo continua nell'oggi della vita della Chiesa. Ma come può la Chiesa, a sua volta, amare fino alla fine, come può il cristiano, profondamente immer­so nei problemi, nei conflitti, nelle tensioni, nelle con­traddizioni e nelle incertezze del mondo, come può amare fino alla fine?

«Vi ho dato un esempio perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13, 15). La lavanda dei piedi continua di generazione in generazione in una catena di amore che non deve spezzarsi. Questo gesto indica la qualità di umiltà del nostro amore, rivela l'umanità, la verità, la tenerezza del nostro cuore, la freschezza, la spontaneità, forse anche la follia del nostro servizio ai fratelli. Amare fino alla fine, è per la chiesa, rivelare al mondo il volto di Cristo.

B. Bobrinskoy, Il les aima jusqu'au bout, 354-358.

quarta-feira, 27 de março de 2013

Il Figlio dell'uomo se ne va come sta scritto di lui

Anonimo sec. XII
«Mentre erano a mensa e mangiavano, Gesù disse loro: "In verità vi dico, uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà"» (Mc 14, 18). Uno dei Dodici..., dei commensali..., l'amico! Così in Gesù non si adempie solamente la parola profetica del servo di Dio, ma anche la parola del Salmista: «Anche l'amico in cui confidavo, anche lui, che mangiava il mio pane, alza contro di me il suo calcagno» (Sal 41, 10; cf. Gv 13, 18). Nel destino di Gesù si adempie anche il destino dell'uomo pio dei Salmi.

Gesù si vede abbandonato nella cerchia dei suoi Dodici. Uno lo consegnerà, un commensale lo tradirà. Sarà una morte prodotta da infedeltà e tradimento, una morte amara, solitaria. Ma anche ad essa Gesù dà la sua approvazione. Il discorso di Gesù ha innanzitutto un effetto speciale nella cerchia dei Dodici: «Allora cominciarono a rattristarsi e a dirgli uno dopo l'altro: "Sono forse io?"» (Mc 14, 19). I suoi discepoli si sentono colpiti dal suo discorso. Anche questa parola è per loro una parola irrevocabile. La prendono sul serio. Non la respingono sdegnati, non la scansano, si lasciano esaminare da essa. L'accettano: «cominciarono a rattristarsi». E, poi, neppure guardano all'altro, ma uno dopo l'altro chiedono: «Sono forse io?». Non sono per nulla sicuri della loro personale fedeltà. Ciascuno ritiene possibile in sé il tradimento di Gesù. Al momento non sono consapevoli di alcuna colpa. Tuttavia non considerano escluso di poter cadere in una simile terribile colpa. Essi non hanno mai capito veramente Gesù, si sono opposti come tutti alla sua via della pas­sione, la loro opposizione è diventata tanto più forte quanto più questa via si avvicinava e più urgente si faceva il suo annuncio; anzi, alla fine, dinanzi alla croce, lo hanno anche abbandonato, dopo che Pietro, che già lo aveva dichiarato Messia, non lo aveva più voluto riconoscere. Nondimeno è rimasto loro quest'unico sentimento: essi non sono più sicuri di se stessi e non accusano subito l'altro, ma chiedono a Gesù: «Sono forse io?». La parola di Gesù ha ancora valore per loro e li scuote.

Gesù non risponde alla loro domanda, non dice chi è il traditore, non toglie ai discepoli la loro salutare ed avvilente ignoranza. Prima di tutto ripete solamente la sua parola profetica, ponendola con ciò ancora più fortemente nella cornice del banchetto: «Ed egli disse loro: "Uno dei Dodici, colui che intinge con me nel piatto"» (Mc 14, 20). (...) Gesù non si sofferma su quello che gli cagionerà uno del ristrettissimo gruppo dei discepoli, guarda alla sua strada, voluta da Dio, e al giudi­zio che incombe sul suo traditore: «Il Figlio dell'uomo se ne va, come sta scritto di lui» (Mc 14, 21). Egli compie la volontà di Dio così com'essa è già contenuta nella Scrittura dell'Antico Testamento. Solamente per questo motivo uno riesce veramente a «tradire» Gesù. In greco la parola che noi traduciamo con «andarsene» non ha il significato di «morire». Marco e Matteo la adoperano per questo solamente qui. In Giovanni, poi, essa acqui­sta una grande importanza. Esprime la necessità e la li­bertà del cammino di Gesù verso la croce, l'irrevocabilità che Gesù assunse nella sua volontà. Questa strada deve essere percorsa e Gesù la percorre.

R Schlier, La passione secondo Marco, pp. 32-34.