sexta-feira, 22 de março de 2013

La preghiera frutto del pentimento

San Pietro pentito, terracotta di Agostinho da Piedade OSB, 1636, Salvador de Bahia, Brasile.
La vera preghiera, quella che noi siamo, a livello della nostra esistenza profonda, non può essere che il frutto della conversione. È li che sfocia il cammino di conversione. Prima di questo momento della conversione la preghiera potrebbe essere nient'altro che un'impre­sa dell'uomo alla ricerca di Dio. Il credente allora impegnerebbe tutte le energie nel tentativo di orientare ognuna delle sue facoltà verso un Signore che si nasconde. Uno sforzo assolutamente meritevole, certamente. Egli cercherebbe di fare di Dio l'oggetto della sua intelligenza, potrebbe anche, per così dire, sforzarsi a produrre qualche sentimento, ma il risultato di una tale ascesi sarebbe sempre passeggero e superficiale. Se prima il cuore non si è purificato e non si è infiammato da se stesso in preghiera, ogni sforzo per la preghiera rimane sterile.

La preghiera deve nascere dalla conversione. Ecco che d'improvviso essa sgorga e diviene presto un fiume che nulla potrebbe più trattenere. È il frutto immediato della compunzione. Katanyssein e compungere, infatti, significano alla lettera: pungere, trafiggere. Lo sguardo misericordioso di Dio punge e trafigge il cuore. Il corpo allora si effonde in lacrime, e il cuore in preghiera. «Quando piangi», annota Isacco il Siro, «i tuoi pensieri mettono il piede sul cammino della vita eterna» (Discorso, 15). È vicina la nuova nascita.

Dapprima questa preghiera sgorga ancora dal profondo dell'angoscia, sfoga la propria miseria. È grido di aiuto, implorazione di perdono. Ma più inonda il cuore con il suo fluire incessante, più si pacifica e si riconcilia, per così dire, con il peccato. O piuttosto, essa finisce per distogliere lo sguardo dalla propria debolezza per fissare unicamente il volto della misericordia.

Il pentimento si tramuta allora, a poco a poco, in una gioia umile e discreta, in timore amoroso, e infine in azione di grazie. La colpa non è negata, non è scusata, ma si converte in perdono.

Là dove abbondava il peccato, la grazia non cessa di sovrabbondare (cf. Rm 5, 20). Tutto ciò che il peccato aveva distrutto, la grazia lo riporta a un incomparabile splendore. Se la preghiera porta ancora i segni della colpa e della miseria, si tratta ormai di una felix culpa, di una colpa assunta e avvolta dall'amore. La preghiera allora è prossima a divenire incessante eucaristia.

A. Louf, Repentir et expérience de Dieu, 41-42.

Nenhum comentário:

Postar um comentário