Nolite mi tangere, San Pedro el viejo, Huesca Spagna. |
Quanto lungo, per
quanto breve cronologicamente e spazialmente, è il cammino che Maria deve
percorrere per passare dall’«esterno» e dall’essere solo «vicino» (Gv 20,11) al
sepolcro in cui cerca l’Amore crocifisso, a lasciarsi introdurre all’interno del
mistero di Cristo ormai risorto. Il cammino che Maria vive accanto al sepolcro
è il processo di conversione cui l’apostolo Pietro invita i suoi uditori al
mattino di Pentecoste: «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare»
(At 2,38), ossia accetti di farsi innestare nella stessa vita del Risorto. Ci
verrebbe da consigliare a Pietro di non insistere troppo sul passato, visto che
tutto alla fine si è risolto per il meglio, anzi sembra che Gesù di Nazaret ci
abbia persino un po’ guadagnato, visto che ormai si può proclamare e credere
che sia stato «costituito Signore e Cristo» (2,36). Ma l’opera di Dio, per
quanto magnifica e capace di rigenerare e riposizionare la storia, non è
sufficiente senza il consenso della nostra volontà, che deve necessariamente
passare attraverso la presa in carico delle proprie responsabilità.
Per questo
Pietro, dopo aver esaltato l’opera di Dio, ricorda – prima di tutto a se stesso
– quella dura verità che può schiacciare o può far volare: «… che voi avete
crocifisso» (2,36). Per la stessa ragione, il Signore Gesù non si rivela
immediatamente a Maria di Magdala e, soprattutto, non si rivela per quello che
questa donna vede, ma per quel cammino di consapevolezza del dolore e del vuoto
lasciato da Gesù nella sua vita che le permette di incontrarlo ricominciando ad
ascoltare dalle sue labbra il suo stesso nome: «Maria!« (Gv 20,16). La domanda
– o meglio le domande – che vengono poste a Maria sono le stesse che sentiamo
risuonare nel giardino del nostro cuore, ove siamo chiamati a passare dalla
tristezza dell’attaccamento al nostro dolore a una graduale apertura,
nell’accoglienza di una gioia inedita e imprevista. Tutto ciò ci chiede di
andare oltre noi stessi, pur nella verità di noi stessi che ci porta oltre la
stessa nostra esperienza di risurrezione in un dinamismo centrifugo ed
estroverso che, dall’interno di un cuore pacificato e guarito, si fa dinamico
annuncio e non dolce intimismo. Nel pronunciare il nome da parte del Risorto e
nella risposta di Maria, che lo chiama «Maestro», vi è una pedagogia che
permette di passare dall’impersonale al personalissimo reciproco riconoscimento.
Esso esige una giusta dose di rispetto e distanza, e un’accoglienza serena di
quell’ordine che permette alla vita di dare il meglio: «Non mi trattenere,
perché non sono ancora salito al Padre» (20,17). Così pure, al mattino, quanti ascoltano
Pietro si sentono «trafiggere il cuore» e solo a partire dalla coscienza delle
proprie responsabilità si apre un futuro: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?»
(At 2,37). Se è vero che la risurrezione non è una rivincita di Gesù su quanti
lo hanno rifiutato fino a crocifiggerlo, è ancora più vero che la discreta vittoria
pasquale sulla morte, che nasce dal rifiuto dell’amore, non è una storia a
lieto fine in cui tutti sono felici e contenti, ma una storia che esige il
coraggio di assumere il passato e volgersi verso l’avvenire attraverso scelte
concrete ed esigenti nel presente: «Convertitevi…» (2,38).
Semeraro, M., La messa quotidiana, aprile 2011, 187-189,
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