terça-feira, 3 de março de 2020

Il segno di Giona

Un uomo che tenta di nascondersi da Dio, di sottrarsi al volto del Signore. Organizza la fuga per nave, attraverso i mari. Tentativo che ha il suo fascino, come un gioco improvvisato di bambini, ma al tempo stesso archetipo impressionante dell’avventura umana. Il «segno» di Giona.
La fuga finisce per cozzare contro i limiti invalicabili posti dalla natura. Il mare rifiuta ogni scappatoia al fuggitivo e Giona rischia il salto supremo. Il valore del «segno» sta soprattutto nel delimitare le frontiere di questo allontanamento supremo: sono le viscere del mostro, il punto ultimo della fuga lontano da Dio, l’abisso, le profondità degli inferi. «Travolto dal vortice delle acque, dice Giona, l’alga si è avvinta al mio capo. Sono disceso fino alle radici dei monti, i chiavistelli della terra mi hanno rinchiuso per sempre» (Gen 2,6-7).
Laggiù, di fronte ai limiti mitici, nel caos del ventre del mostro, Giona giunge al termine della sua fuga. Il termine, naturalmente, è Dio. Nel ventre del mostro Giona si ritrova là dove si rifiutava di andare. Ma ora conosce ciò che rifiutava e ciò che cercava nel suo fuggire. Ha tracciato una via. Giona ora è un punto riferimento, un «segno».

L’avventura umana della fuga lontano da Dio riveste molteplici forme: esistono varie navi, diverse vie. Ma tutte queste forme sono quasi sempre della stessa ingenuità infantile, un gioco improvvisato. E sempre si finisce per cozzare contro gli stessi limiti invalicabili della natura, anche se non tutti osano spingere la propria fuga fino all’estremo. Ogni evasione è seguita dall’illusione di aver raggiunto l’estremo. Perciò il ventre del mostro, termine rivelatore, profondità palpabile dell’abisso, non è mai la fine necessaria della fuga. Resta solamente un «segno».
Nella memoria della Chiesa il «segno» di Giona evoca l’evento del Sabato santo. Il «segno» prefigura il Cristo che ha seguito l’uomo fino ai limiti ultimi della sua fuga. È arrivato fino alle più estreme profondità dell’allontanamento umano da Dio per riannodare alla vita divina i recessi più abissali della rivolta umana. Tre giorni e tre notti nel cuore degli inferi, come Giona — in un tempo trinitario, cioè sempre presente e adimensionale — ai limiti supremi dell’abbandono di se stesso. (...)
É così che Giona diventa l’archetipo della nostra fuga ma anche della nostra salvezza. «Questa generazione chiede un segno, ma non le sarà dato nessun segno fuorché il segno di Giona» (Lc 11,29). Un Dio inavvicinabile nelle altezze della sua magnificenza è una grandezza indifferente all’uomo che sperimenta le profondità degli inferi. Per quanto grande fosse la sua apparizione, per quanto oggettivo il segno che imponesse l’accettazione o la sottomissione, sarebbe impossibile trattenere la fuga dell’uomo. Per questo, benché sovente il pretesto della nostra fuga sia il silenzio di Dio, non ci sarà dato un «segno» del genere. Perché l’uomo riconosca la divinità di Dio ha bisogno di palparla commensurabile al proprio abisso. É in questa dimensione, dimensione di morte e misura delle profondità degli inferi, che si rivela la dismisura dell’amore divino. Un Dio coperto di ferite, vincitore e onnipotente, conforme a Giona, sulle tracce del suo fuggire, trasforma la fuga in un incontro di comunione. I limiti invalicabili della natura sono aboliti dall’amore adimensionale. Dio e l’abisso dell’uomo diventano un solo corpo, Giona diviene uno con il ventre del mostro. Salvatore è questo «segno».
Ch. Yannaras, Le signe de Jonas, pp. 194-196.

segunda-feira, 12 de junho de 2017

Avventura nella Provvidenza Divina

Retiro predicato alle Figlie della Divina Provvidenza, della comunità di Via Galvani, Testaccio, Roma, dal 05-10 di giugno 2017.
La Protezione de Raffaele (Acquarello 1x1mt, Curitiba, Proprietà privata). 

La prima conferenza era la omelia della messa al mattino, accompagnato da San Raffaele nelle avventure di Tobit e Tobia, suo figlio. Nel pomeriggio una seconda conferenza sul tema del vangelo del giorno.

01. Introduzione e primi passi dell'avventura di Tobia.
02. La Vigna e i vignaioli

03. L'incidente dell'uomo pio e osservante

04. la moneta nella mano di Gesù
05. La preghiera di colui che soffre e vuole morire
06. La Scuola di preghiera dei salmi
07. Gli effetti immediati della preghiera
08. Il comandamento e il segreto dell'amore

09. I sacrifici e l'anastasis
10. Gesù e il salmo 109
11. Raffaele rivela il senso

sábado, 12 de março de 2016

Quinta Domenica di Quaresima: L'Adultera

Is 43,16-21 Sal 125 Fil 3,8-14 Gv 8,1-11
La liturgia di oggi ci mette di fronte al Signore Gesù come nostro difensore, nostro rifugio, nostro conforto: «Rimase solo Gesù con la donna là nel mezzo» (Gv 8,9). Ed è proprio là - appunto nel mezzo che ognuno di noi oggi è chiamato a sostare, lasciandosi guardare e giudicare, lasciando che ciascuno prenda la sua decisione su di noi e persino contro di noi: «scagli per primo la pietra contro di lei» (v. 7).
Il quadro del testo evangelico è molto semplice: una donna, degli uomini che l'accusano e sono pronti a ucciderla per adempiere la legge; l'uomo Gesù, che loro vogliono condannare assieme e a causa di questa donna quasi fosse lui il complice che la legge prevede sia pure punito.
Il Signore Gesù si lascia interpellare non come un rabbì e neanche come un giudice, ma, secondo il suo modo di fare aperto, leale, assolutamente trasparente, «postala nel mezzo» (Gv 8,3), si lascia toccare da questa donna che giace lì, davanti ai suoi occhi, in attesa che egli punti il dito contro di lei, e invece «si mise a scrivere col dito per terra» (v. 6). Forse Gesù scriveva: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche…» (Is 43,18). O forse non scriveva nulla, ma lasciava a ciascuno la possibilità di leggere nel proprio cuore tutto quello che si sarebbe potuto scrivere contro i suoi inganni, le sue ombre, le sue paure...
Il Signore Gesù non si muove dal suo posto e, invece di interessarsi alla donna puntando il dito contro di lei, si rivolge ai suoi accusatori toccando loro il cuore: «Chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra contro di lei» (Gv 8,7). Questa parola cambia tutto. La Scrittura senza la Parola uccide. Gesù dà Parola alla Scrittura e tutto cambia e la Scrittura invece di essere «eseguita» viene «compiuta», come più tardi avverrà sul Golgota, dove Gesù sarà crocifisso esattamente e proprio «nel mezzo» (Gv 19,18). Ormai si può fondare tutto non sulla giustizia «derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede» (Fil 3,9).
In quella donna svergognata e spogliata di tutta la sua dignità Gesù vede l'umanità, vede ciascuno di noi nella propria fragilità e aiuta quegli uomini a specchiarsi non nella legge - di cui sono garanti - ma in quella donna, la cui debolezza è anche la loro, è anche la mia. Chissà se Gesù si sarà ricordato di sua Madre e del pericolo che aveva corso? Chissà se si è ricordato di ciò che suo padre - Giuseppe - aveva fatto a suo tempo...?
In ogni modo ciò che cambia il destino di ciascuno di noi è la presenza di Gesù «in mezzo a noi». Se egli non ci fosse stato, quella donna sarebbe morta e quegli uomini non sarebbero cresciuti. La presenza di Gesù cambia il nostro modo di guardare verso l'altro, perché ci aiuta a cominciare e a ricominciare sempre a guardare l'altro partendo da noi stessi: dai nostri bisogni, dalle nostre fragilità, sentendo ogni creatura come parte di noi stessi: «Mi glorificheranno le bestie selvatiche, sciacalli e struzzi, perché avrò fornito acqua al deserto» (Is 43,20).
Abbiamo bisogno ogni giorno di ritrovarci soli con Gesù non per essere assolti dal nostro peccato con un colpo di spugna, ma per essere rilanciati verso la vita: «va'» (Gv 8,11). Questo invito ad andare è ciò che ci ridona la possibilità di dare un nuovo volto alla nostra vita anche se possiamo dire: «non ritengo di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro corro... » (Fil 3,13-14). Ogni giorno potremo ormai dire: «Signore, se non ci fossi stato tu, che fine avrei fatto?», ma egli ci risponde «io sono con te sempre» (Sai 72,26). Anzi, è sempre con noi per evitarci non solo di essere lapidati ma, ancor più, di essere conquistati dalla follia di passare tutta la vita con una pietra in mano, in cui tanto miseramente si rispecchia niente altro che il nostro cuore di pietra e non ancora di carne (cf. Ger 31).
Proprio mentre l'itinerario quaresimale si avvicina quasi a marce forzate al mistero pasquale, ciascuno di noi è chiamato a mettersi al posto giusto, a trovare e mantenere il suo posto e questa donna ce ne indica uno possibile: esattamente di fronte al Signore Gesù che ha il coraggio di porle una domanda su se stessa: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?» (Gv 8,10). La risposta la conosciamo tutti, ma la domanda è ancora più importante. Una domanda, anzi due domande, che nessuno sarà in grado di porre al Signore Gesù nell'ora del «più grande amore» (Gv 15,13), quando la «giustizia» fece il suo iniquo corso.

Semeraro, Micheldavide, Con Gesù in compagnia di Luca, La Parola festiva nell’Anno C, EDB Bologna 2006, 47-48.

quinta-feira, 17 de setembro de 2015

Il comando della speranza

Mosaico romano, s. III, Musei Vaticani, Vaticano.
Gli uomini vengono chiamati ad una speranza duratura. La vera speranza non si fonda sul fluttuare dei nostri sentimenti e nemmeno sul successo della nostra vita. La vera speranza, cioè quella permanente e fondante, ha la sua base nell’appello e nel comando di Dio. Noi siamo chiamati alla speranza! Essa è un comando, un comando di resistere contro la morte, È un appello, l'appello alla vita di Dio.

La speranza permanente non ce la portiamo dietro dalla nascita, né l'acquisiamo dall'esperienza, e quindi dovremo apprenderla. Noi impariamo a sperare quando seguiamo l'appello. Impariamo a sperare nelle esperienze del nostro vivere. Impariamo a conoscere la sua verità quando veniamo costretti ad affermarci contro la disperazione. Impariamo la sua forza quando vediamo che essa ci mantiene in vita in mezzo alla morte.

Ma si dà una vocazione alla speranza? Si può essere comandati a sperare? La speranza è un obbligo? Ciò suonerà strano per tutti coloro che considerano la speranza come un affezione del cuore o un’esuberanza giovanile. E anche per quelli che hanno riposto la speranza nell’esperienza o nelle previsioni di una storia.

Ciò che personalmente io ho imparato dall'esperienza, fatta con la speranza, è che la speranza è più di un sentimento, più di un'esperienza. La speranza è anche più di una previsione. La speranza è un comando. E seguirlo significa vivere, sopravvivere, perseverare, mantenersi in vita finché la morte non sia inghiottita nella vittoria. Obbedire a tale comando significa: non essere mai rassegnati, né concedere mai rabbiosamente spazio alla distruzione.

Crisostomo, un Padre della Chiesa, diceva: «Ciò che ci porta alla sventura non sono tanto i nostri peccati quanto la disperazione». Oggi diremmo: la frustrazione. Il comando della speranza è invece la forza, la forza di tutti i comandamenti che ci mantengono in vita e ci portano alla libertà. Questo imperativo suona: «Io vivo ed anche voi dovete vivere» (Gv 14,19), «Chi persevererà fino alla fine sarà salvo» (Mc 13,13). (...)

«Chiamati alla speranza» è una locuzione biblica. Sta ad esprimere la vita della comunità di speranza del Nuovo Testamento. Chi crede sa di essere rigenerato ad una speranza vitale. Per mezzo della risurrezione di Cristo dai morti gli è stato dischiuso un futuro incomparabile, perché non destinato a scomparire. Il regno della libertà e della pace di Dio, per il rinnovamento del cielo e della terra, si pone come una realtà indistruttibile e certa. Chi crede è disposto «a render conto a ciascuno della speranza che è in noi» (1 Pt 3,15): sia di fronte ai giudici che condannano alla prigionia, come di fronte alle masse prigioniere. Dalla speranza di Cristo viene generato il nuovo popolo di Dio, costituito di ebrei e pagani, servi e padroni, uomini e donne, umanità e creazione.

In effetti, la Bibbia dell'Antico e Nuovo Testamento" è il libro delle promesse di Dio e speranze degli uomini.
J. Moltmann, Esperienze di Dio, 31-34.

sábado, 23 de maio de 2015

Dio è Dio perché non ha nulla

Sec. XIII, Metropolitan Museum of Art, NY.
«La vera felicità, la felicità della persona, la felicità dello spirito, insomma tutte le felicità che hanno origine nell’intelligenza e nel cuore, sono beni che non possono essere posseduti. Quando si vuol possedere la verità, la si perde. Quando si vuole farne un monopolio, la si limita in una caricatura, quando si vuol possedere l’amore, gli si diventa estranei... Questa felicità esiste solo circolando, comunicandosi in una disappropriazione continua.

La vita divina che è Trinità è impossedibile. Dio è per eccellenza l’impossedente e l’impossedibile, l’antipossessione come l’antinarciso. Egli è Dio proprio a ragione di questo spossessamento...

La più elevata espressione del cristianesimo è la scoperta della Povertà. E’ l’intuizione profonda, viva, irradiante della Povertà di Dio... Il Padre non ha nulla, non è che uno sguardo verso il Figlio. Il Figlio non ha nulla, non è che uno sguardo verso il Padre. Lo Spirito Santo non ha nulla, non è che un’aspirazione verso il Padre e il Figlio. Dio è povero, Dio non ha nulla, Dio è Dio perché non ha nulla...»
[1]
.




[1] M. Zundel, À l’écoute du silence, Téqui, Paris 1979, pp. 66 e 101-103; citato in Bible Chrétienne II, 216.

segunda-feira, 22 de dezembro de 2014

22 Dicembre Il Magnificat: un discorso su Dio

Virgem del Magnificat, tempera sul legno, Cappella Seminario Padri Mariani, Curitiba, Pr, Brasile. 1998.
Il Magnificat fa emergere la portata e il significato dell’Annunciazione a partire da tre diverse situazioni umane: quella religiosa, quella socio-politica e quella etnica, ciascuna delle quali non basterebbe da sola a interpretare l’evento. Il congiungimento di tre linguaggi distinti tende precisamente a penetrare più a fondo nel mistero. Ciascuno dei tre approcci presenta vantaggi e limiti. Il figlio che Maria porta in grembo è la risposta di Dio alle aspirazioni religiose di «quelli che lo temono», alle aspirazioni socio-politiche dei deboli e dei bisognosi e a quelle nazionali del popolo giudaico. Tuttavia, pur rispondendo a tutte queste aspirazioni, va oltre le loro aspettative.

Agli occhi dell’evangelista Luca, è molto significativo che la madre del Salvatore sia stata scelta tra le figlie d’Israele, che appartenga alla stirpe di Abramo e dei patriarchi, anche se è vero che la salvezza alla quale credono i cristiani non è più questione di carne e di sangue. Occorreva tuttavia che la salvezza universale venisse da Israele, affinché fosse resa manifesta la fedeltà di Dio alle sue promesse e la continuità che fa della Chiesa l’erede di Israele.

È anche significativo che la madre del Salvatore sia stata scelta all’interno del gruppo religioso dei timorati di Dio i quali vogliono essere interamente al suo servizio, anche se è vero che la salvezza annunciata dall’evangelo non è riservata alle persone che si distinguono per la loro religiosità: più di ogni altro l’evangelista Luca insisterà sull’amore di Dio per i peccatori, i quali sono tutti chiamati alla conversione.

Non è infine meno significativo che la madre del Salvatore sia stata scelta nella classe sociale più umile, quella dei piccoli, dei deboli, dei poveri, diventando così la prima testimone di una salvezza la cui buona novella è direttamente destinata ai poveri. E questo non vuole affatto dimostrare l’idea che la salvezza portata al mondo da Cristo sia riservata a una classe sociale, ma rivela piuttosto l’atteggiamento di un Dio che non accetta l’ingiustizia sulla quale sono fondate le società umane, in cui la legge del più forte è sempre la migliore, e le preferenze di un Dio che privilegia proprio quelli che la società degli uomini disprezza e rigetta: nel regno di questo Dio i primi di questo mondo saranno gli ultimi e gli ultimi i primi. (...)

Il Dio di cui il Magnifrat celebra la santità, la misericordia e la forza è certamente il Dio che «i timorati di Dio» servono, tuttavia il seguito del vangelo ci fa sapere senza indugio che la sua sollecitudine si volge in modo particolare a quelli che si sono allontanati. A questi chiede di tornare a lui per poter perdonare loro tutto.

Il Dio celebrato dal Magnificat è e resta il Dio di Israele, il Dio che ha chiamato Abramo e le cui promesse in favore della sua discendenza non possono venir meno. Tuttavia è anche il Dio che ha voluto che tutti gli uomini possano beneficiare della salvezza accordata al suo popolo, indipendentemente dalla loro origine etnica.

La salvezza, infine, che Dio vuole assicurare a tutti gli uomini non prescinde dalle situazioni concrete della loro esistenza, ma comporta in modo essenziale un capovolgimento delle situazioni di ingiustizia che gravano sui deboli e i bisognosi. Il Dio del Magnificat si schiera risolutamente dalla parte dei poveri e dei privi di potere.

Il Magnificat non definisce Dio, ma ne parla solo in funzione dei diversi aspetti dell’intervento salvifico iniziato con l’Annunciazione. E di questo evento Luca ci presenta Maria quale prima testimone.

(J. Dupont, Le Magnificat comme discours sur Dieu, 338-342.)

segunda-feira, 23 de dezembro de 2013

23 Dicembre La nascita del nuovo Elia

San Giovanni Battista, Centro Aletti, Serbia.
Dio fa sorgere Giovanni Battista, come il nuovo ed ultimo Elia, colui nel quale si compie e si esaurisce la lunga discendenza del profetismo. Tutto il profetismo, infatti, non era che preparazione alla venuta di Dio. Ora Dio visiterà il suo popolo «come un sole che sorge dagli abissi» (Lc 1, 78).

E proprio quello che Zaccaria, non più incredulo come alla prima visita dell’angelo, ma illuminato dallo Spirito Santo (Lc 1, 67) e ripieno dello spirito di profezia riconoscerà in questo figlio, uscito dalla sua carne, del quale contempla con stupore la missione nello spirito: «E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo» (Lc 1, 76). In virtù dello sguardo profetico che penetra, oltre le apparenze sensibili, nel contenuto divino della storia sacra, Zaccaria vede nel bambino quel profeta per eccellenza — non soltanto profeta ma «più di un profeta» (Mt 11, 9) — che «camminerà davanti al volto di Dio» cioè che precederà il manifestarsi di Dio per «preparare le vie» di questa manifestazione «mediante la remissione dei peccati». E questa manifestazione non sarà il giudizio terribile portato su di un’umanità schiava della morte e del peccato, ma l’espressione della «tenera misericordia» che si alzerà come un’aurora dalla profondità degli abissi, come una luce insperata nel cuore delle ineluttabili tenebre. (...) La vocazione di Giovanni ci appare così esemplare di ogni vocazione, in quanto ogni vocazione è una missione. Ci appare inoltre esemplare di ogni vocazione in quanto ogni vocazione è elezione. Ciò spiega innanzitutto il carattere assolutamente gratuito della vocazione. Dio sceglie come e quando vuole, senza essere condizionato da nulla, in piena e sovrana libertà. Libertà, tuttavia, che non è arbitrio; se la libertà divina non è condizionata da nulla di esterno, essa è però l’espressione dei misteriosi consigli della sapienza e dell’amore. Questo appare eminentemente in Giovanni. Egli è scelto da Dio per una missione che Dio stesso gli destina, non in virtù di qualche merito precedente ma fin da prima che nascesse. «Egli sarà ripieno di Spirito santo fin dal seno di sua madre» dice l’angelo a Zaccaria (Lc 1, 15). La Chiesa non esiterà ad applicargli, nell’introito della sua Messa, le parole con le quali il profeta Isaia designa l’eletto per eccellenza, il servo di Jhwh: «Jhwh mi ha chiamato fin dal seno materno, fin dalle viscere di mia madre ha pronunciato il mio nome» (Is 49, 1). Anche qui Giovanni Battista appare nella successione di tutti coloro che Dio aveva eletto nel corso della storia sacra per farne i propri strumenti. Poiché l’elezione è sempre in funzione di una missione. (...)

L’elezione appare così uno di quegli aspetti dei mores divini che si manifestano attraverso la storia sacra e che sono l’oggetto della contemplazione profetica. Come Maria ammirerà nell’incarnazione del Verbo la manifestazione della suprema potenza di Dio, così già Zaccaria ammira nell’elezione di Giovanni una meraviglia compiuta da Dio solo. Il Benedictus è quasi una profezia del Magnificat. Perciò tutto questo esordio del vangelo si svolge come una liturgia in cui i misteri si susseguono ai misteri, riempiendo di stupore gli angeli e gli uomini.

(J. Daniélou, Giovanni Battista, testimone dell’agnello, 14-17.)